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Wednesday, October 01, 2014

Everything is ready, it's grape-harvest time!


We are just in grape harvest time, a period that, this year, will be long if the weather holds.

In fact this year in Tuscany  Sangiovese grapes are not yet  arrived all at full maturity.

Not so for the Chianti Vepri.
So they will probably harvest by the end of this week: everything is ready.

Last Saturday I was right there with my sister,  to visit Siro Cicogni, owner of the Vepri Vineyards.

Friday, July 25, 2014

A good Chianti!

Chianti Vepri

Siro e Clio Cicogni
The winery is located at Ambra, in the Chianti area of Valdichiana.
Its name come from the quaint village of Vepri that borders one side of the property. This country has ancient pre-Roman roots and a special vocation for wine.
C conducted by Clio Cicogni who in 2010 bought an old vineyard of 15 hectares, abandoned from several years and immediately decided its conversion to organic farming.
The family Cicogni has a tradition in the field of milling wheat for bread (5 generations). Since 1976 developed the sector of cereals and in the past 14 years begun the production of organic feeds, and more recently converted the mill to exclusive organic production. (see website).

Tuesday, April 22, 2014

Hauner Winery - Malvasia delle Lipari

La Malvasia delle Lipari ed altri vini dell'Azienda Hauner

www.hauner.it
Carlo Hauner Junior
The Hauner farm located on the island of Salina, in the Aeolian Islands was founded in the '70s by Carlo Hauner senior, who moved there and bought a land size of 20 hectares. After cleaning and having restored the ancient terraces, he made this land a vineyard Malvasia, grape already cultivated by local farmers on the island. The wine Hauner is today well known in the most prestigious restaurants worldwide
The farm now is led by Carlo Hauner Junior, son of the founder. It produces two types of Malvasia (natural and raisins), one white wine and two red wines and a unique Grappa di Malvasia delle Lipari. The production is made from the grapes from the vineyards, in the district of Lingua in Salina, and from grapes of other small local winemakers
visita il sito dell'azienda
Carlo Hauner, from Brescia but with Bohemian origin was the creator of the farm that bears his name. He arrived for the first time in the Aeolian islands in 1963 as a tourist. As a young man he was a painter and not yet twenty years old, he exhibited at the Biennale di Venezia. In the years of maturity he gained significant international success as a designer. His passion for winemaking can be seen as the ultimate challenge of an intense life full of interests... So begins the page on the website that tells the story of the Hauner winery.

Saturday, February 15, 2014

Mastroberardino: a family and its wine

The Mastroberardino family for over two centuries deals with wine.
The first evidence of the presence in Irpinia date back to the Land Registry Bourbon, in the middle of the eighteenth century, a time when the family chose the village in the province of Avellino Atripalda their headquarters, where they are still located on the old cellars, and there originated in offspring that their fate inextricably tied to the cult of the wine. Since then I have spent 10 generations that have carried on the business of the family of origin ups and downs: the phylloxera, the first and the second world war that depopulated the countryside and the earthquake that struck so disastrously in the 70 territory.
"We defended our traditions and our tastes gaining recognition worldwide. Pliny spoke of Fiano and Falanghina in these areas, we fought to preserve the history" was use to tell to those who visited the winery Antonio Mastroberardino, the guru of wines from Campania, who died last January aged 86. It 'about her though many winemakers have retained the Irpinia Aglianico vines, Taurasi, Fiano and against any Greek fashion, against any approval of taste would say almost ahead of its time, at a time when the Ministry of agriculture pushed to replace old varieties with more productive, Trebbiano and Cabernet.

Tuesday, September 17, 2013

Facciamo in casa il nostro aceto di vino!

L’aceto mi piace e lo uso spesso in cucina, non soltanto nella vinaigrette ma anche in molte ricette.
Tutti gli aceti mi piacciono, all’aceto di mele al mirin giapponese, ma per me il migliore è l’aceto di vino se è fatto proprio con l’uva, o è ricavato da vino vero e buono e non è troppo acido. Quindi, per esserne sicura lo faccio in casa, da me.

Questa è in realtà  una lunga tradizione famigliare. Una volta avevamo addirittura una grande acetiera di vetro munita di spillatore che permetteva di spillare l’aceto dalla parte bassa del contenitore, ma erano altri tempi e la famiglia era numerosa.
Ora non ho più bisogno di quantità di aceto così grandi e perciò uso un vaso da circa 1 litro che  fornisce la giusta quantità per me, rabboccandolo mano a mano che lo svuoto.


Fare l’aceto è facile, che si parta dall’uva cioè dal vino o dal mosto.
La ragione è molto semplice: l'aceto è la vera ed unica trasformazione naturale dell’uva e del suo succo.

Il vino in realtà è una elaborazione molto sofisticata e “tecnologica” del mosto che ha richiesto tempi lunghissimi di sperimentazione, l’invenzione di strumenti e tecniche particolari e lo studio di una grande gamma di chimica naturale del vino tutt’altro che semplice da capire.
Seguendo le parole di Platone che dice che doveva essere un uomo saggio colui che ha inventato la birra, io dico che doveva essere un vero genio colui che inventò il vino.
Fare e conservare il vino sono una continua lotta contro la sua naturale tendenza a diventare aceto.

COME SI FA L'ACETO

Il procedimento casalingo è semplice ma richiede comunque attenzione. Prima di tutto dovremo scegliere  se vogliamo partire dal vino a dall'uva. In Italia la normativa impone ai produttori di partire soltanto dal vino forse per sostenerne il mercato, ma in casa possiamo fare quello che ci pare, perché l'aceto lo prepariamo per noi e non per venderlo.
Se vogliamo partire dall'uva, sarà necessario premere l'uva in qualche modo  per ottenerne del mosto. In questo caso, almeno per i primi giorni, lasciate unito sia il liquido  ottenuto che le vinacce che portano con sé i lieviti che saranno utili alla acetificazione. Poi, filtrate il mosto per togliere le vinacce, spremetele ancora molto bene e quindi procedete come se  partiste dal vino.

Ecco le regole principali:
  • Il vino migliore è quello a bassa gradazione, non più di 12 gradi. Se è più forte, diluitelo con un po’ d’acqua. Anche il vino ad alta gradazione diventa aceto, ma ci mette molto di più.
  • Il vino migliore deve essere poco lavorato e contenere meno chimica possibile.
  • La temperatura  migliore dell’ambiente va dai 20 ai 30 gradi C.
  • Il mosto o il vino devono poter “respirare”, quindi è opportuno che il liquido abbia un’ampia superficie di esposizione e che il recipiente sia chiuso d una tela o un tappo di cotone che pur riparando dalla polvere consentono il passaggio dell’aria. Perciò meglio un vaso che una bottiglia, e se proprio avete soltanto una bottiglia a disposizione meglio una damigianina, un fiasco o un bottiglione non colmo ma riempito fino a 2/3 in modo che la superficie esposta sia larga.
Possiamo fare aceto di qualsiasi vino, rosso o bianco, vecchio o giovane. Il procedimento prenderà tempi diversi secondo i casi. I vini bianchi, che sono spesso più lavorati dei rossi, di solito impiegano più tempo.Tempo fa, ne ho fatto partendo da uno Champagne che era rimasto dimenticato in cantina da non so quanti anni ed ho ottenuto un aceto squisito.
Per dare un buon aceto il processo non deve essere troppo veloce ed è anche per questo che il nostro aceto casalingo è più buono di quello prodotto industrialmente in cui il processo è velocizzato in vari modi.
Io compro il vino sfuso in una vineria vicino a casa che vende vino a "KM zero" della cui qualità sono certa. Parto sempre da un vino semplice, una Croatina dell’Oltrepò Pavese che non supera gli 11,5 gradi etilici.
Verso il vino in un boccale o un vaso possibilmente con l’imboccatura larga e facendolo lo arieggio, anche più volte, perché è l’aria che favorisce l’ossidazione che trasforma l’alcol del vino, l’etanolo, in acido acetico grazie a una folta famiglia di batteri che si trovano nell’ambiente, proprio come i lieviti che servono a preparare la pasta madre per il pane.
Faccio questa operazione sempre a finestre aperte in modo che ci sia corrente d’aria, ma questa è una mia idea.
Se me n’è rimasto, aggiungo un poco di aceto di vino ed eventualmente anche una parte della madre.

Come facilitatore o starter dell’ossidazione aggiungo qualche spaghetto e pezzo di pasta cruda ed anche della mollica di pane. Credo che il motivo di questa diffusa abitudine sia che uno dei batteri acetici, il Gluconobacter si sviluppa durante il processo di ossidazione del glucosio, che la pasta contiene. Non è obbligatorio ma  lo fanno in molti.
Alcuni aggiungono anche dei truccioli di legno ma a me questo non piace proprio.

Durante l’ossidazione i batteri prolificano e si organizzano in una famiglia che forma una membrana stratificata, chiamata madre dell’aceto.
Prendetevene cura con delicatezza perché è una cosa viva, un agglomerato di piccoli operai che faranno l’aceto per voi. Quando dovrete rifare altro aceto, potete lavarla e tagliata e pezzi aggiungerla al vino. Questo abbrevierà il tempo di avvio.

Durante la fase iniziale dell’ossidazione però si potrebbe formare sulla superficie del vino una leggerissima membrana, una specie di velo diverso da quello destinato a diventare la madre. Questa formazione, che a volte ha un aspetto leggermente polveroso perché si tratta di una muffa, viene chiamata fioretta ed è opera di un altro batterio che compete con i batteri acetici e rallenta o addirittura impedisce l’ossidazione. In questo caso asportatela anche se io preferisco gettare tutto e ripartire da capo.
La fioretta non si forma sempre e molto dipende dall’ambiente. Perciò quando trovate un buon punto di casa dove l’aceto viene bene, mettete lì la vostra acetiera e conservate la madre con cura.

Ho l'abitudine di partire da zero a fare l'aceto ogni settembre perché, visto che ne produco poco per volta, mi capita spesso che durante l’estate, mentre sono via da casa, il vino nell'acetiera evapori completamente.

Durante l’anno, faccio comunque dei rabbocchi e delle aggiunte, anche con il vino avanzato nei bicchieri in tavola ed i fondi di bottiglia. Una volta raggiunta una buona maturazione, spillate l’aceto (sarà più facile se avete un’acetiera) e  rabboccate il boccale con altro vino fresco e poi rimettetelo nel solito posto. Prima di usarlo, filtrate l'aceto accuratamente (io uso i filtri di carta della Melitta che servono per fare il caffé ma sono utilissimi in tanti altri casi).

Sunday, July 07, 2013

Archeologia sperimentale: Vini Archeologici Romani

Gironzolando alla ricerca di notizie sui cibi e le bevande nella Gallia antica mi sono imbattuta in siti dove si parla di archeologia sperimentale, una branchia dell'archeologia che si propone di riprodurre nella pratica le deduzioni ricavate dai ritrovamenti quando riguardano tecniche costruttive o produttive.
Mi pare, a quanto ne so io, che questa corrente dell’archeologia sia molto più diffusa e considerata in Inghilterra ed in Francia che non in Italia.

Così ho trovato proprio in Francia alcuni vinificatori appassionati che, anche con l’aiuto degli archeologi hanno provato a produrre vini  seguendo le antiche indicazioni.

Un esempio è il MAS DE TOURELLE, una azienda vinicola ma anche una sperimentazione sullo stesso sito di una antica città gallo-romana nel territorio di Montpellier.
L’azienda produce dei vini archéologici romani e sembra proprio che li produca facendo uso dei dolia seguendo le indicazioni emerse dagli scritti di Columella e di altri antichi scrittori.
I vini archeologici di ispirazione romana prodotti al Mas de Tourenne sono tre ed uno di essi è il MULSUM, un vino dolce che i Romani bevevano soprattutto come aperitivo, per accompagnare quelli che oggi chiameremmo antipasti, cioè durante la gustatio.

Nel Sud della Francia ci sono un buon numero di appassionati che cercano di non rompere del tutto con le tradizioni antiche. Anche in Italia esistono molti produttori così, ma in Italia è molto più difficile trovarli e sicuramente nessuno promuove adeguatamente queste iniziative. Quindi, mi sento di dire che in Italia, per fare qualche cosa del genere bisogna avere molto più coraggio.

Certamente in queste avventure c’è anche una buona parte promozionale perché se usati bene il rispetto per le tradizioni antiche e la loro conservazione esercitano una attrazione importante sul mercato, ma  se il vino è buono e ben fatto non c’è assolutamente nulla di male. Anzi direi che l’operazione è addirittura lodevole.

Tuesday, May 28, 2013

Josco Gravner ed il vino nelle anfore

Non conosco di persona Josco Gravner, lo conosco soltanto per quello che ho appreso  di lui  e del suo amore per la terra ed il vino su web.

Il suo punto di vista mi è piaciuto. Corrisponde al 100% con quello che penso io con una differenza: lui oltre alle idee ci mette anche il suo lavoro e la sua fatica.

La mia ammirazione è nata prima di assaggiare il suo vino.
C'è qualche cosa di  semplice e di sacro insieme nel suo modo di pensare alla terra ed al vino, qualche cosa che risveglia echi e nostalgie di antichità.

Se ancora esistesse l'azienda vinicola che era della mia famiglia ed ancora fosse in vita mio padre sono pronta a scomettere che prima o poi anche lui proverebbe a fare il vino nello stesso modo.

Josco Gravener fa il vino in anfore interrate nel pavimento della cantina, proprio come è stato fatto fino al I° secolo avanti Cristo, anfore che Catone il Censore nel suo De Agri Cultura chiama Dolia.
Questo sistema ormai dimenticato si è conservato grazie ai piccoli vinicoltori del Caucaso meridionale, soprattutto della Georgia e dell'Armenia, che non hanno mai smesso di praticarlo anche se soltanto su piccola scala ed a livello familiare dopo le modifiche introdotte dal governo sovietico che hanno messo in grave pericolo la rinomata qualità dei vini di quelle regioni citati persino nell'Iliade e nelle Argonautiche, qualità che non dipende soltanto delle uve ma anche dall'antico metodo di lavorazione.



Josco Gravner fa il suo vino nelle anfore lasciando a lungo nel liquido di spremitura graspi e vinacce e poi lo fa maturare per alcuni anni in grandi tini o grandi botti di legno, fino all'imbottigliamento.
Ma non si tratta soltanto di questo.
Tutto parte dalla cura della terra e della natura che devono essere sane, dall'attenzione nel trattare l'uva stessa ed i vigneti e dal fatto che questa vinificazione non ha bisogno di nessuna aggiunta di lieviti né di refrigerazione ma soltanto di molto lavoro.
Insomma non è un semplice sistema di coltivazione ma una filosofia, quasi una religione.
Per capire meglio vi consiglio di guardare questo video e di leggere questa intervista.


Gravner è stato il primo in Italia a sperimentare coraggiosamente questo metodo antichissimo, che tutti avevano abbandonato da circa 2000 anni. Un metodo che certamente la vinicultura moderna ed estensiva, che come tutta l'industria di oggi ha l'obiettivo del continuo aumento della produzione, delle vendite e dei guadagni, non potrebbero mai permettersi perché richiede molta perizia ed attenzione, troppa, e soprattutto un cambio totale di intenti.

Non sto facendo pubblicità ai vini di Gravner  che non ne hanno bisogno ma al suo modo di porsi verso il mondo.